Presentiamo oggi a tutti e tutte un nuovo progetto, sul quale SINISTRA ITALIANA è impegnata a tutti i livelli.
Si tratta della creazione di un bando pubblico finanziato da una parte delle risorse che abbiamo disponibili come partito, e che derivano come sapete in parte dai versamenti dei nostri compagni e compagne parlamentari ( il 70% del loro stipendio lordo è versato al partito ) e in parte dalla raccolta del 2×1000, che ha sostituito il finanziamento pubblico. Già in questa “origine” delle risorse che avremo a disposizione, sta molto del messaggio che vogliamo lanciare: il riutilizzo di soldi pubblici destinati normalmente all’attività politica e istituzionale, per “restituirli” ad azioni utili socialmente.
Infatti il progetto del bando ha come mission quella di supportare con due linee di finanziamento, progetti a livello locale e animati dai nostri circoli, da associazioni, collettivi, gruppi informali, incentrati sulle pratiche di nuovo mutualismo sociale, solidarietà, ecologia, cooperazione produttiva, beni comuni. Il bando dunque si rivolge in primis, con piccoli finanziamenti utili a sostenere attività di volontariato, al corpo vivo del partito, al suo primo e fondamentale organismo che è il circolo, cioè i militanti e attivisti che sono sul territorio e agiscono concretamente su di esso. Il senso è quello di privilegiare un nuovo concetto di essere e fare il partito, di essere e vivere la militanza politica. Che, se vogliamo costruire l’alternativa e rendere credibile la sua stessa idea, deve basare la sua ragione sulle pratiche sociali, non solo sull’opinione. Pensare ad un partito che attiva sul territorio circoli pieni di attività socialmente importanti, piccole o grandi che siano, ma concrete e legate all’idea di trasformazione dei rapporti sociali che si vivono, significa immaginare la formazione di soggettività e la militanza stessa, come un processo permanente nel quale tutti siamo coinvolti. Inoltre questo bando incentiva la creazione sul territorio di relazioni politiche e sociali con altri, che magari operano già a livello associativo su questi temi, o che vorrebbero farlo ma non hanno mai trovato l’occasione.
Le ragioni di una scelta. La crisi come momento costituente.
Organizzarsi per poter dare vita a un percorso progettuale basato sul mutualismo e la solidarietà, è per noi una scelta politica. Certamente il significato etico e denso di umanità delle pratiche dell’aiuto verso l’altro, delle relazioni orizzontali e di scambio reciproco, della cooperazione, non vengono diminuiti dalla “politicità” che ci spinge. Anzi. Si riafferma per noi il legame indissolubile che deve tornare ad esserci tra l’etica e la politica. Ma a nostro avviso l’azione e la progettualità incentrate sul mutualismo, assumono proprio dentro il tempo della crisi un “ruolo” rinnovato, che ridefinisce nel suo complesso il “fare politica”.
La crisi, è stato detto e ripetuto, è un mostro dalle molte teste. La sua molteplicità esprime i punti di rottura paradigmatici del nostro tempo, separando nettamente un’epoca da un’altra. La crisi si mostra come crash economico, ma subito a ciò si aggiunge inevitabilmente, il volto orribile del baratro sociale. La povertà, nell’altra epoca considerata un fenomeno collaterale allo sviluppo progressivo del sistema capitalistico, oggi è un dato strutturale e in crescita.
Fare politica contro la povertà. Una scelta per la maggioranza
I poveri non sono l’eccezione, ma la regola di un nuovo assetto sociale, di un nuovo mercato del lavoro e di un’imposizione oggettiva di condizioni di vita che avviene dall’alto verso il basso, e che ha sostituito ogni precedente patto sociale. L’impoverimento riguarda la stragrande maggioranza dei cittadini, che oggi si stratificano in vari livelli di appartenenza di censo, in un range che va dai lavoratori poveri fino ai poveri assoluti. Questi ultimi in Italia e in Europa, stanno crescendo come numero in maniera vertiginosa. Parliamo ormai di decine di milioni di persone, donne, uomini e soprattutto bambini, sotto la soglia di povertà. Il fenomeno dei “working poors”, che definisce l’altro confine in cui si trova la maggioranza degli abitanti europei, riguarda coloro che pur avendo accesso ad lavoro, a causa della flessibilità del tempo di impiego e di un salario sempre più basso, non riescono a far fronte ai costi normali di vita. Questo tipo di “povertà da lavoro” ha strettissimi legami con quella da “indebitamento”. Ormai grande parte del salario, già insufficente, serve a pagare debiti contratti per avere accesso non solo a beni secondari o di consumo, ma anche a quelli primari: acqua, luce, gas, cibo, e soprattutto casa e mobilità. Il quadro di questa nuova situazione è ben riassunto dall’ultimo rapporto di Caritas Europa sulle condizioni sociali dei cittadini del vecchio continente: 135 milioni a rischio povertà, su 500 milioni di abitanti. I lavoratori poveri si collocano dunque sul ciglio dell’abisso, e definiscono le caratteristiche di un fenomeno strutturale, e non congiunturale, che si è andato formando nella crisi, o meglio, a causa delle politiche che l’hanno gestita. La povertà dunque, paradossalmente, diventa più centrale dell’epoca che abbiamo lasciato. Tutte le potenziali conquiste in termini di rivoluzione tecnologica e digitale, che hanno reso infinitamente minore il lavoro necessario e moltiplicato a dismisura la capacità di produrre ricchezza, invece di costituire il presupposto per una migliore qualità della vita per tutti, hanno finito per diventare il contesto nel quale la vita è peggiorata per la stragrande maggioranza. Non è un caso se molte volte ci riferiamo a questa epoca come ad un “medioevo 2.0”.
La fotografia del presente dunque è questa: una piramide sociale, dove al vertice risiede quella minoranza, circa il 10% dei cittadini, che accumula nelle sue mani oltre il 50% della ricchezza. Il rimanente è distribuito nel 90% di popolazione, ma oltre la metà non possiede quasi nulla. Tanto per essere chiari in Italia, secondo le indagini del Banco Alimentare, il 14% delle famiglie non ha accesso a cibo sufficiente, e i bambini in stato di malnutrizione superano abbondantemente il milione. Questa situazione dunque, definisce la prima motivazione della scelta politica: noi vogliamo stare con chi sta in basso nella piramide, e quindi con la maggioranza. E’ importante questa precisazione, “la maggioranza”. E’ evidente che la bussola che ha sempre orientato la nostra azione politica, è stata quella di occuparci dei più deboli, di partire da lì, di considerare i luoghi della difficoltà e della povertà come centro della costruzione di un mondo migliore per tutti. E questo rimane. Ma si è trasformato anche nel tema del rapporto tra maggioranza e minoranza, o se si vuole della differenza tra democrazia e oligarchia. Oggi i poveri, gli impoveriti, gli indebitati, i precari, i discriminati, sono anche la maggioranza della popolazione italiana ed europea. Lo slogan che ha dato vita ad una delle più significative mobilitazioni del nostro tempo, quella di Occupy Wall Street, era “noi 99% voi 1%”. Stava a significare proprio questo. Oggi occuparsi di pratiche che affrontano il tema della povertà, significa stare nella maggioranza, significa essere parte della comunità umana nella sua interezza. Significa organizzarsi dal basso contro l’alto che detiene il controllo della ricchezza.
Le pratiche di un nuovo mutualismo
Le pratiche di un nuovo mutualismo sociale, proprio dentro il dispiegarsi di uno stato di crisi reso permanente dalla arrogante e irresponsabile cocciutaggine di coloro che l’hanno provocata, hanno dunque a che fare con la conquista di nuove forme di vita collettiva, più che con il semplice aiuto a chi ha più bisogno. Intendiamoci, non sono due concetti contrapposti nè in competizione, ma l’evolversi della condizione sociale generale, e lo smantellamento del welfare state operato dai governi liberisti, a nostro avviso rendono politicamente orientate anche tutte le forme di volontariato e solidarietà. Pensiamo a ciò che è accaduto di recente sulla questione dei profughi di guerra e richiedenti asilo: la vera opposizione, l’azione politica più efficace, contro xenofobi, razzisti, imprenditori della paura e fautori dell’europa fortezza, è stata compiuta da migliaia di cittadini che a Roma, a Milano, a Ventimiglia e in tante città di arrivo dei migranti, hanno costruito l’accoglienza dal basso, a volte nonostante le resistenze delle autorità, altre volte coadiuvandone in maniera fondamentale l’azione. In un clima reso arroventato e terroristico dalla destra più estrema, aiutata dalla pavidità e dall’ipocrisia finanche “semantica” del governo, non è stata forse quella della raccolta viveri e generi di prima necessità a Roma, la distribuzione dei pasti alla stazione di Milano, la carovana continua di supporto di Ventimiglia, la presa di posizione politica più forte, concreta ed efficace per opporsi alla situazione, per praticare il diritto di asilo?
Come profondamente politiche sono le centinaia di iniziative e progetti che in tutto il nostro paese sono messe in campo ogni giorno in tema di accoglienza, diritti, cultura.
Mutualismo e solidarietà significano anche altre cose: aggredire l’ideologia dell’individualismo e della competizione gli uni contro gli altri, un vero e proprio dogma della “religione” liberista, contrapporre la costruzione di legami tra le persone che non siano fondati sugli interessi di “mercato”, conquistare il “comune” e formare comunità, progettare e praticare da subito un’alternativa di società.
Una alternativa all’economia liberista
Ma anche in termini economici, le pratiche di mutualismo sociale, intervengono politicamente su un sistema che ci ha portato allo sfacelo. Ad esempio il coworking, dimensione che si è diffusa proprio a partire dalla crisi, rovescia il paradigma della precarietà imposta alle figure del lavoro contemporanee, trasformando la necessità ( quella ad esempio di condividere lo spazio di lavoro per abbattere le spese ) in opportunità: gli spazi di coworking sono la fucina della coprogettazione, degli scambi interdisciplinari e della messa in comune delle competenze. Sono luoghi dove ci si organizza insieme per trovare e creare lavoro, dove dal basso avviene quello che le istituzioni, per volontà o per incapacità, non fanno, come nel caso dell’Agenzia Giovani o dei disattesi programmi europei di Job tutorial. L’incontro tra domanda e offerta di lavoro, passa più per un coworking che dalle agenzie istituzionali.
Vi è una ragione di fondo infine, nella centralità della cooperazione e dell’economia di relazione, del “mettere in comune”: è proprio lì, nel cuore della cooperazione, che avviene il processo di produzione del valore nel sistema capitalistico contemporaneo. La comunicazione, la rivoluzione informatica, le reti produttive, si basano proprio sul lavoro cognitivo e collettivo, mettendo al lavoro non il “genio” individuale, non la forza “singolarizzata”, ma la capacità di connessione gli uni con gli altri, la potenza della cooperazione tra diversi, la mescolanza di saperi, linguaggi, attitudini, esperienze. E’ lì, situato in tutto ciò che è “comune”, dai beni comuni originari al comune che si forma nella produzione collettiva di lavoro, che l’azione ” (estrattiva come la definisce Harvey) da parte del liberismo è violenta, spietata, feroce. Nel caso dei beni comuni, delle risorse, scarse, che teoricamente abbiamo a disposizione, dall’acqua, alla terra, all’energia, all’aria, al suolo etc. lo sfruttamento avviene attraverso la loro privatizzazione. Nel caso della cooperazione umana esso agisce innanzitutto non riconoscendone il valore, e trattando chi lavora come singola merce, individualizzando i diritti e i salari, parcellizzando cioè la possibilità di organizzarsi del lavoro come soggetto collettivo, e riducendolo a oggetto individuale. Si sfrutta la potenza della cooperazione sociale, che viene trasformata in vera e propria macchina complessa, che fa muovere città e metropoli, moderne fabbriche sociali, ma poi si trattano i protagonisti di questa potenza produttiva solo come singoli ingranaggi, uno diviso dall’altro. Il massimo della dimensione collettiva per produrre, il massimo della solitudine nella vita. Per questo costruire pratiche e progetti mutualistici e solidali significa rovesciare tutto. Significa riappropriarsi collettivamente di forme di vita che uniscano la potenza produttiva alla qualità dell’esistenza e che cambino il modello sociale verso il quale siamo stati incanalati come bestie al macello. Significa trasformare le nostre città e metropoli da “fabbriche” utili solo a riprodurre esclusione e diseguaglianza, a laboratori urbani di nuova forma sociale, dove nascono nuove teorie e pratiche degli usi, dei consumi, dei beni comuni.
Per una nuova militanza
Promuovere questo progetto, significa per noi sperimentare nuove forme della militanza politica. La crisi dalle tante teste è anche crisi della democrazia nel suo complesso: crisi della partecipazione, crisi dei corpi intermedi che l’hanno accompagnata e promossa finora, crisi della forma partito. In questo contesto riteniamo necessario assumere fino in fondo, ancora una volta, la sfida. Liberandoci da feticci e passiva impotenza, e assumendo questi dati come irreversibili. La militanza politica non deve, ma soprattutto non può essere il corollario formale di un’azione politica consegnata unicamente alla società dello spettacolo o, nel migliore dei casi, all’intervento mediatico sulla formazione di opinione pubblica, finalizzato alla “cattura” del consenso. Non si può immaginare un progetto politico di cambiamento che funzioni unicamente sulla “rappresentanza” istituzionale. Non si può essere parte di questa società, percorrerla e conoscerla per cambiarla, se non ci dotiamo di visioni e strumenti efficaci, che diano un nuovo senso al concetto di militanza.
Allora, il mettere in campo capacità progettuale sui terreni del mutualismo, dei beni comuni, della cooperazione e della solidarietà, significa anche mettere in campo una produzione di nuova soggettività militante, capace di ri-formare anche la nostra comunità politica.
Nessuno può oggi più sottovalutare quanto centrali siano, per l’azione politica, le forme e i modi con cui si sta insieme. Come non sfugge, dentro una progressiva ridefinizione dall’alto degli spazi democratici storicamente conosciuti, ridefinizione in senso di progressiva rarefazione e chiusura, quanto sia fondamentale essere percepiti per quello che si fa concretamente, e gli esempi anche nella storia recente di grandi e formidabili nuove realtà politiche di alternativa, sono sotto i nostri occhi. Ecco dunque che all’azione politica nel senso della rappresentanza istituzionale, si affianca il nodo strategico dell’azione sociale. E il rapporto tra le due cose non è di una subordinata all’altra, ma di compenetrazione, di osmosi come dicevamo all’inizio. Se riusciamo a mettere in campo una nuova rete nazionale per costruire azione progettuale e pratiche condivise sui territori incentrate su quello che abbiamo provato a descrivere, ne trae vantaggio tutto il lavoro politico nel suo insieme, anche quello istituzionale. Non solo. In tempi di post-democrazia la domanda che è giusto porsi è “a che serve la rappresentanza?”. Ma la risposta non può che essere trovata dalla ricerca collettiva di un mandato, che non può e non deve limitarsi alla delega del voto. Il mandato sociale è quello di formare una rappresentanza utile e utilizzabile da coloro che vogliono cambiare la società, l’europa, il mondo.
Ed è così che ci sentiamo di concludere per cominciare questa nuova avventura. La nostra organizzazione politica è chiamata oggi ad investire intelligenze, forze, mezzi su qualcosa che starà fuori, in mezzo al mare. Ma i legami più forti non sono quelli burocratici nè formali. I legami più forti non si vedono. Si sentono. E sono quelli indissolubili e che cambiano te, perchè tutti insieme possiamo cambiare lo stato delle cose presenti.